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La Casa Bianca fa la lista nera: giornalisti schedati sul sito del governo

Trump trasforma il portale presidenziale in un tribunale pubblico dell’informazione: nomi, accuse, classifiche e una “Hall of Shame” per marchiare le testate scomode. Un precedente senza ritorno

La Casa Bianca fa la lista nera: giornalisti schedati sul sito del governo

La Casa Bianca fa la lista nera: giornalisti schedati sul sito del governo

Una schermata nera, caratteri bianchi e un titolo che non lascia spazio a sfumature: “Misleading. Biased. Exposed.” È la nuova sezione del sito ufficiale della Casa Bianca che, da fine novembre 2025, cataloga e bolla come “offenders”, cioè colpevoli, le testate e i giornalisti accusati di coperture fuorvianti o prevenute nei confronti del presidente Donald Trump. Non un blog di partito, non un canale propagandistico laterale, ma il portale istituzionale della presidenza degli Stati Uniti. Il gesto, già di per sé politico, diventa così un atto che sposta l’asticella dello scontro a un livello nuovo, perché la cornice non è quella della polemica quotidiana, ma quella dello Stato. La sezione è strutturata come un archivio in continuo aggiornamento: c’è una classifica, una “Hall of Shame”, una banca dati consultabile per testata, autore e tipologia dell’offesa, che va dal “bias” alla “misrepresentation”, dalla “lie” alla “left-wing lunacy”, fino all’“omission of context”. Terminologia da campagna permanente, ma sigillata nella veste più istituzionale possibile.

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La pagina, ospitata sul dominio federale, apre con il “Media Offender of the Week” e prosegue con un elenco di articoli e autori additati come scorretti, una leaderboard presentata come una “race to the bottom” e un riquadro “Repeat Offenders” riservato a chi, secondo la Casa Bianca, sbaglia non una, ma più volte. Il lettore può filtrare il database per testata, giornalista o categoria, e può iscriversi alle “Offender Alerts”, una newsletter settimanale che rilancia gli aggiornamenti del “tracker”. In cima alla lista dei più “colpevoli” figura The Washington Post, seguito da MS NOW(ex MSNBC), CBS News, CNN, The New York Times, Politico e The Wall Street Journal. La mappatura è costruita per essere intuitiva, impattante, immediata: nomi, etichette e punteggi scorrono in un’interfaccia che richiama più un tabellone sportivo che un monitor istituzionale.

Nel debutto pubblico del progetto, i primi “offenders” selezionati sono stati The Boston Globe, CBS News e il britannico The Independent. Il caso da cui nasce la contestazione riguarda un video diffuso da sei parlamentari democratici con un passato nelle forze armate o nei servizi di intelligence. Nel video, i deputati ricordano ai militari il dovere di rifiutare ordini illegali. La Casa Bianca sostiene che alcuni media avrebbero esagerato e travisato la reazione del presidente, arrivando a suggerire che Donald Trump avesse evocato la pena di morte o incitato alla violenza, mentre l’amministrazione parla di un richiamo alla responsabilità, inquadrato nella cornice del reato di sedizione e nel rispetto della catena di comando. La pagina ufficiale etichetta l’episodio come esempio di “Misrepresentation” e “Omission of context”, ribaltando il racconto mediatico e accusando la stampa di aver creato una narrazione tossica su un messaggio che, secondo la Casa Bianca, sarebbe stato frainteso.

CASA BIANCA

Il video dei sei deputati democratici, ribattezzati dal presidente come i “Seditious Six”, contiene parole pesanti: “potete rifiutare un ordine illegale… dovete rifiutare ordini illegali”. Per la Casa Bianca, quel messaggio avrebbe insinuato che il Comandante in capo stesse impartendo – o fosse sul punto di impartire – ordini illegali, legittimando la disobbedienza. Qui si apre il vero fronte dello scontro: l’amministrazione traccia una linea rossa tra critica politica e “licenza di dipingere il presidente come un fuorilegge”, mentre una parte della stampa rivendica il diritto e il dovere di registrare la durezza delle parole presidenziali verso i parlamentari, anche quando si parla di sedizione. La sezione “Media Offenders” diventa così la risposta istituzionale a un conflitto che, da anni, corre sul filo sottile tra libertà di informazione e guerra politica.

A destare grande attenzione è anche la “Offender Hall of Shame”, che raccoglie schede riassuntive con i riferimenti agli articoli ritenuti scorretti, i nomi dei giornalisti e la categoria dell’offesa. Nella classifica dei “Repeat Offenders”, The Washington Post svetta al primo posto: secondo la Casa Bianca, il quotidiano della capitale si distinguerebbe per un numero particolarmente alto di episodi categorizzati come “bias”, “mischaracterization” e “lie”. La selezione, però, comprende casi molto diversi, uniti soltanto dall’assunto presidenziale secondo cui errori, forzature o omissioni finirebbero per costruire una narrazione ostile e pregiudiziale.

Tra gli esempi citati dall’amministrazione compare anche un caso controverso riguardante la U.S. Coast Guard(Guardia Costiera degli Stati Uniti). The Washington Post aveva pubblicato un articolo su un presunto cambio di politica della Guardia Costiera relativo alla classificazione di svastiche e capestri come simboli d’odio. Dopo la pubblicazione, la Guardia Costiera ha corretto la propria posizione, e il Post ha dato conto del dietrofront, rivendicando l’accuratezza del proprio lavoro. La Casa Bianca usa questo episodio per sostenere che narrazioni affrettate possano generare confusione e danni reputazionali. The Washington Post, dal canto suo, ha replicato con fermezza: “siamo orgogliosi di un giornalismo accurato e rigoroso”.

La pubblicazione della pagina ha generato reazioni immediate nelle redazioni e nelle associazioni di categoria. Più voci parlano di una strategia intimidatoria, perché un organo del potere esecutivo che utilizza un canale istituzionale per schedare giornalisti e testate rappresenterebbe un salto di qualità nella disputa politica sulla stampa. Alcune testate segnalano errori o forzature nelle schede pubblicate. Un episodio citato dalla stampa statunitense riguarda l’inserimento, poi rimosso, di un giornalista di Fox News nella lista degli “offenders”, dopo le obiezioni interne alla rete. Un incidente che alimenta dubbi sulla supervisione editoriale del database e sui criteri di valutazione.

Sul piano tecnico, la pagina funziona come un motore di ricerca semantica e classificatoria. Il database consente ricerche per parola chiave, testata, autore o tipologia dell’offesa. La leaderboard, con barre dinamiche e contatori in movimento, usa un’estetica da gara al ribasso. Le categorie spaziano dal “bias” all’“omission of context” fino a definizioni marcatamente polemiche come “left-wing lunacy”. Ogni scheda rimanda agli articoli originali, per consentire al lettore di “giudicare da sé”, almeno secondo la narrativa ufficiale. Tutto è pensato per un aggiornamento settimanale scandito dalle “Offender Alerts”, un sistema che fidelizza un pubblico già predisposto a leggere il rapporto tra Casa Bianca e media come un campo di battaglia.

La guerra fredda tra presidenza e stampa ha radici lontane, ma la scelta di istituzionalizzarla dentro un sito governativo segna un salto politico e comunicativo. Nel 2025, in un contesto di polarizzazione estrema, l’amministrazione Trumpha intensificato azioni legali e contenziosi contro diverse testate, rivendicando pubblicamente transazioni e accordi con grandi broadcaster. Le frizioni con The Washington Post, The New York Times, ABC, CBS, CNN e MS NOW sono documentate da anni, e “Media Offenders” viene letto come l’ennesimo capitolo di una narrativa antagonista: i media come nemico del popolo, il giornalismo come apparato di potere rivale da contrastare in ogni spazio possibile.

La questione non è se la critica ai media sia legittima – lo è, e in democrazia è un diritto – ma chi esercita quella critica e da quale pulpito. Non si tratta del comitato elettorale o di un super-PAC (Political Action Committee), ma della presidenza degli Stati Uniti. La pubblicazione di un indice di testate “colpevoli” su un sito governativo solleva domande concrete sui criteri adottati, sull’eventuale diritto di replica, sull’effetto dissuasivo che una “Hall of Shame” ufficiale può avere sui reporter con meno tutele e sulla capacità del database di tenere traccia delle rettifiche. A oggi, la pagina si limita a fornire estratti e link agli articoli contestati, con etichette spesso più valoriali che tecniche.

Gli obiettivi dichiarati dell’iniziativa possono rovesciarsi nel loro contrario. Se la Casa Bianca punta a smascherare chi disinforma, l’effetto potrebbe essere duplice: rafforzare la base più fedele al presidente, che vede confermata la propria percezione dei media mainstream come manipolatori, e alimentare una contro-mobilitazione nelle redazioni e tra i lettori più sensibili alla libertà di stampa. Nel mezzo rimane la maggioranza dei cittadini, ai quali la pagina offre etichette e classifiche immediate ma che rischiano di semplificare processi informativi complessi trasformandoli in punteggi da videogame.

Il caso della breve inclusione di un giornalista di Fox News, poi rimossa, è emblematico. Mostra che il meccanismo non è immune da errori e che la curatela editoriale – chi decide, come verifica, quanto controlla – è un punto critico. Un inciampo di questo tipo, in una pagina che pretende di misurare accuratezza e contesto, rischia di diventare una smentita in diretta, offrendo alle testate colpite un argomento potente: se l’indice è impreciso, quanto lo è il giudizio?

Per uscire dalla logica binaria “media cattivi” contro “presidente censore”, il lettore avrebbe bisogno di tre elementi: una trasparenza metodologica completa, la visibilità delle rettifiche e un diritto di replica reale. Senza questi, il tracciato diventa unidirezionale, più simile a una war room che a un osservatorio indipendente. Le testate citate hanno risposto con fermezza ma anche con prudenza. The Washington Post ha rivendicato la solidità del proprio lavoro, mentre The Guardian e altri quotidiani internazionali hanno analizzato l’impianto retorico della pagina, segnalando la mescolanza di giudizio politico e affermazione di autorevolezza.

Sul piano politico, “Media Offenders” serve almeno tre funzioni: consolidare un frame amico/nemico, mobilitare la base attraverso strumenti come la newsletter e spingere le testate in una posizione difensiva. Il rischio è che il sistema irrigidisca ulteriormente l’ecosistema informativo invece di renderlo più trasparente e più saldo. Se davvero la Casa Bianca volesse promuovere un’informazione di qualità, dovrebbe pubblicare per ogni caso un memorandum metodologico, garantire un diritto di replica visibile e aggiornare lo stato delle contestazioni quando gli articoli vengono corretti.

“Media Offenders” non è soltanto un altro round dello scontro tra Donald Trump e la stampa americana. È un esperimento, potente e controverso, di comunicazione istituzionale in cui il governo decide di assumere il ruolo di arbitro del discorso pubblico. Il rischio è che la disintermediazione promessa diventi iper-mediazione: una lente unica, quella del potere esecutivo, che classifica, ordina, interpreta. In una democrazia liberale, il pluralismo non è un ornamento, ma l’aria che consente alle istituzioni di respirare. Nell’anno 2025, la sfida è far convivere critica serrata, trasparenza dei metodi e diritto di replica. Una sfida che né il governo né i media possono permettersi di perdere.

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