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01 Dicembre 2025 - 11:22
Orban e Putin
All’ultimo piano di un elegante palazzo di Budapest, una platea di giovani e diplomatici ascolta rapita mentre sul palco, come fosse un evangelista della nuova destra globale, il presidente della Heritage Foundation, Kevin Roberts, spiega perché «lo Stato-nazione deve riprendersi ciò che Bruxelles ha usurpato». La scena si svolge nella sala del Mathias Corvinus Collegium (MCC, scuola-think tank finanziata dai dividendi della compagnia petrolifera ungherese MOL, che acquista massicce quantità di greggio russo). Mentre scorrono slide sulla “sovranità”, il gas russo continua a scaldare case e imprese in mezza Europa, e il premier ungherese Viktor Orbán vola a Mosca per rassicurare Vladimir Putin: l’energia russa resta «indispensabile». L’immagine è solo in apparenza locale. È invece l’istantanea di un progetto politico e culturale molto più vasto, che lega think tank ultraconservatori statunitensi, reti euroscettiche europee e interessi strategici del Cremlino. E che mira a un bersaglio dichiarato: un’Europa meno integrata, più frammentata, quindi più vulnerabile.

Il filo rosso che unisce queste realtà non è più una coincidenza. Nella galassia della Heritage Foundation, la più potente officina di politiche della destra statunitense, l’idea che una Unione Europea forte sia un ostacolo alla sovranità nazionale è un dogma consolidato. Già nel 2022 Kevin Roberts definiva l’UE «il più aggressivo e pericoloso nemico dello Stato-nazione», accusando le élite “globaliste” di voler scavalcare le decisioni nazionali su immigrazione, clima, identità, finanza. Non era una frase detta per caso: era la linea politica. Già tra il 2005 e il 2007, autori come Nile Gardiner, John Blundell e Lee Casey, nei paper ufficiali della fondazione, descrivevano la centralizzazione europea come una “minaccia” per gli interessi americani e chiedevano a Washington di esercitare «pressione diplomatica» per frenarla. Dopo i referendum falliti sulla Costituzione europea in Francia e Paesi Bassi, da Heritage si parlò esplicitamente di un «grandioso progetto da fermare».
Negli ultimi tre anni, però, l’approccio è cambiato: dall’ideologia alla costruzione di reti operative sul suolo europeo. Le partnership con l’universo “illiberale” ungherese — Danube Institute, MCC, una costellazione di eventi paneuropei — e i rapporti con gruppi polacchi come Ordo Iuris si sono consolidate attorno a un obiettivo comune: ridimensionare il livello sovranazionale, riportare competenze strategiche agli Stati su migrazione, clima e diritti. Indagini indipendenti e documenti amministrativi ricostruiscono fondi, nomi e calendari, mostrando come l’azione sia tutt’altro che improvvisata.
Dentro questo schema, il progetto americano Project 2025 — la “cassetta degli attrezzi” della destra trumpiana in vista di una nuova amministrazione a Washington — ha ottenuto un’eco sempre più forte in Europa. Tra il 2023 e il 2024 la Heritage Foundation ha moltiplicato missioni, conferenze e intese strategiche nell’Europa centro-orientale, trovando nel governo ungherese e nei suoi think tank terreno fertile. I comunicati ufficiali della fondazione registrano la presenza di Kevin Roberts persino al World Economic Forum di Davos, usata come vetrina per attaccare il “globalismo”. Parallelamente, strutture come MCC e Danube Institute, finanziate attraverso asset pubblici e partecipazioni in MOL, hanno intensificato i contatti negli Stati Uniti, acquistando consulenze, interventi e spazi sui media. Il fronte polacco non è meno significativo: la rete di Ordo Iuris, vicina agli ambienti del World Congress of Families e a settori dell’ortodossia russa conservatrice, partecipa a campagne contro la “federalizzazione” europea e propone riforme che limitino ulteriormente il potere di Bruxelles.
In questo intreccio, la Russia gioca un ruolo silenzioso ma costante, facendo dell’energia la propria arma politica più efficace. Prima dell’invasione dell’Ucraina nel 2022, Mosca copriva il 45% delle importazioni di gas dell’UE e oltre il 27% del petrolio. Dopo l’inizio della guerra, Bruxelles ha bloccato carbone e gran parte del greggio, ma il gas è rimasto un punto sensibile. Nel 2024 le importazioni europee di gas naturale liquefatto russo hanno toccato tra 16,5 e 17,8 milioni di tonnellate, perché non soggette a sanzioni e ancora competitive sul mercato. Nel 2025 la Commissione Europea ha adottato una roadmap per eliminare definitivamente il gas russo entro il 2027-2028, riducendo e poi vietando nuovi contratti e limitando servizi nei terminali di GNL. È un passaggio strutturale che non vale per tutti allo stesso modo. La Germania, ad esempio, ha dovuto nazionalizzare il colosso del gas Uniper nel 2022 per evitare un collasso sistemico dopo i tagli di Gazprom e ha ottenuto via arbitrato 13 miliardi di euro per le forniture interrotte, denaro che però difficilmente rivedrà. Intanto la quota di gas russo sul totale UE è scesa dal 45% del 2021 al 19% del 2024, mentre il transito via Ucraina si è chiuso all’inizio del 2025. L’eccezione continua a essere l’Ungheria: Viktor Orbán nel 2025 ha chiesto a Mosca più gas e più petrolio, rivendicando deroghe ai piani europei di uscita dai combustibili russi. È l’esempio dimostrativo di come la dipendenza energetica diventi un’arma politica: più un Paese è agganciato a Gazprom e al greggio Urals, più può minacciare veti e bloccare le decisioni comuni dell’UE.
Questo sistema non vive solo di politica estera o di pipeline, ma anche di costruzione culturale. Le strutture come MCCe Danube Institute formano nuove élite convinte che l’integrazione europea sia una forzatura e che il Green Deal — il grande programma climatico dell’UE — sia un’imposizione ideologica. Secondo documenti ottenuti da inchieste indipendenti, il Danube Institute ha speso oltre 1,6 milioni di dollari negli ultimi tre anni per costruire una rete di contatti negli USA, pagare interventi, organizzare conferenze e diffondere articoli. È una “diplomazia delle idee” ben finanziata e molto attiva. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Heritage Foundation offre visibilità e legittimazione a leader come Viktor Orbán, consolidando una narrativa comune contro il “globalismo”. Sul fronte giuridico-culturale, realtà come Ordo Iuris lavorano per contestare competenze europee su diritti, bioetica e giustizia, stringendo rapporti con reti internazionali sostenute anche da ambienti oligarchici russi.
Il precedente più evidente di questa convergenza è la Brexit, il più grande arretramento dell’integrazione europea mai registrato. È anche il punto in cui gli interessi della destra trumpiana e del Cremlino si sono toccati con più evidenza sul piano mediatico e politico. La figura di Nigel Farage ne è stata il simbolo internazionale. Nel 2025 la condanna dell’ex eurodeputato Nathan Gill a dieci anni e mezzo per aver accettato denaro in cambio di interventi pro-Mosca al Parlamento europeo tra il 2018 e il 2019 ha riaperto la questione dell’influenza russa sui circuiti euroscettici. Gill, a lungo vicino a Farage, ha ammesso tutte le accuse. Il caso, pur riguardando condotte individuali, mostra la permeabilità di alcuni ambienti anti-UE ai messaggi e ai finanziamenti del Cremlino.
La spinta della Heritage Foundation contro l’UE ha una matrice ideologica, ma anche una forte componente geopolitica. Una Unione Europea capace di coordinarsi su difesa, energia, tecnologia e fiscalità è un attore globale in grado di negoziare da pari con Stati Uniti e Cina. Per la destra americana più radicale, questo è inaccettabile. Meglio dialogare con ventisette governi separati — più fragili e più ricattabili — che con un blocco coeso. Nei documenti ufficiali della fondazione si legge con chiarezza: la centralizzazione europea sarebbe «negativa per gli interessi USA» e andrebbe fermata con «appropriata pressione diplomatica». E le alleanze operative in Europa centro-orientale trasformano quella teoria in pratica.
Le cifre mostrano la dimensione dello scontro. Sul fronte energetico, la dipendenza dal gas russo è scesa dal 45% del 2021 al 19% del 2024, con un calendario vincolante che punta allo zero entro il 2027-2028. Ma le importazioni di GNL russo restano alte, segno che la dipendenza è diminuita, non scomparsa. Sul fronte finanziario, nel primo anno di guerra l’UE ha versato alla Russia quasi 140 miliardi di euro per combustibili fossili; tra il 2022 e metà 2025 i ricavi complessivi superano i 200 miliardi. Ogni ritardo nelle politiche energetiche europee si traduce in entrate per Mosca. E sul fronte politico, il Consiglio Europeo ha fissato l’eliminazione del gas russo entro il 1° gennaio 2028, con il blocco dei nuovi contratti già dal 2026. Le deroghe saranno limitate, ma la battaglia è tutta politica.
Le fratture che si aprono nell’UE hanno effetti molto reali. Una Europa divisa è un alleato meno credibile per l’Ucraina e più esposto agli effetti politici del ricatto energetico. Le campagne contro il Green Deal, organizzate da MCC e affini, coincidono perfettamente con gli interessi dei settori fossili. Le pressioni per indebolire i meccanismi europei sullo Stato di diritto — già visibili in Ungheria e in passato in Polonia — minano la coerenza politica dell’Unione. E nella comunicazione pubblica, media amici, scuole di formazione politica e reti social diffondono il frame “Bruxelles contro il popolo”, esportando il modello orbaniano e amplificandolo con il megafono statunitense.
Di fronte a tutto questo, l’UE ha iniziato a reagire. La strategia passa dalla trasparenza sui finanziamenti ai think tank, dall’indurimento delle regole sul lobbismo, dal rafforzamento della sicurezza energetica e dalla difesa dello Stato di diritto come interesse strategico, non come questione morale. Serve anche un investimento massiccio nell’alfabetizzazione civica e informativa, perché senza anticorpi culturali ogni propaganda trova terreno fertile.
La crisi tra Uniper e Gazprom, con il salvataggio tedesco e la corsa agli stoccaggi, ha dimostrato che la dipendenza energetica non è una variabile economica, ma di sicurezza nazionale. Quando un unico fornitore può chiudere il rubinetto, i prezzi esplodono, le imprese crollano e gli Stati devono intervenire per evitare un disastro sociale. La Russia ha coltivato per anni questa leva, coccolando i grandi acquirenti come la Germania del Nord Stream, l’Austria dell’hub di Baumgarten, l’Ungheria dell’oleodotto Druzhba, promuovendo il mito del “gas pulito e conveniente”. Quando è iniziata la guerra, la prima mossa è stata chiudere i flussi. L’UE ha resistito con nuovi terminali di GNL, interconnessioni, politiche di risparmio e diversificazione, ma finché circola GNL russo la leva politica non è del tutto neutralizzata.
Non esiste un trattato formale che unisca questi attori. Esiste però una convergenza di interessi che li porta nella stessa direzione: la Heritage Foundation spinge per restaurare la supremazia dello Stato-nazione contro l’UE; le reti politiche e culturali legate a Viktor Orbán offrono supporto ideologico e visibilità; Mosca utilizza energia e finanziamenti indiretti per orientare la discussione pubblica europea. In mezzo ci sono i cittadini, travolti da bollette, disinformazione e un gioco geopolitico che mette in discussione la stabilità del continente. L’Unione Europea mantiene strumenti formidabili: un mercato da 450 milioni di persone, una struttura industriale di peso globale, un’agenda climatica che può diventare vantaggio competitivo, una “diplomazia normativa” capace di fissare standard mondiali. Ma tutto questo vale solo se esiste unità politica. Ed è proprio questa unità il vero bersaglio dell’asse anti-UE. La partita è tutt’altro che chiusa.
Fonti utilizzate: Heritage Foundation; Mathias Corvinus Collegium (MCC); Danube Institute; MOL; Gazprom; Commissione Europea; Consiglio Europeo; Uniper; World Economic Forum; Ordo Iuris; World Congress of Families; Parlamento Europeo; documenti e report pubblici UE, analisi energetiche 2021-2025.
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