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30 Novembre 2025 - 19:21
Il Libano ferito si ferma per Papa Leone XIV: pace tra macerie, silenzi e paura
La raffica secca di una batteria d’artiglieria rompe l’aria salmastra tra Ouzai e Baabda, mentre nel porto le navi rispondono con le sirene a ricordare che nulla, in questa città, avviene davvero in silenzio. Alle 15:45 del 30 novembre un aereo bianco tocca la pista dell’Aeroporto Internazionale Rafic Hariri: Papa Leone XIV scende la scaletta con passo misurato, accolto dal capo dello Stato Joseph Aoun e da un picchetto in alta uniforme che marca ogni movimento. La salva di 21 colpi sancisce l’inizio di una visita di 48 ore che promette parole di pace in un Paese in cui la pace è ormai una parola vulnerabile, logorata giorno dopo giorno da missili, inflazione e sfiducia diffusa. Beirut, città che ha imparato a vivere con l’emergenza permanente, si ferma per il pellegrino più atteso degli ultimi anni e per una domanda che nessuno riesce più a rimandare: è ancora possibile salvare il “vivere insieme” libanese?
L’agenda del viaggio è essenziale, costruita quasi come un percorso penitenziale: cerimonia di benvenuto, incontro con le istituzioni al Palazzo presidenziale di Baabda, dialogo con società civile e corpo diplomatico; lunedì preghiera sulla tomba di san Charbel ad Annaya, visita al santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa, incontro ecumenico e interreligioso in Piazza dei Martiri e confronto con i giovani a Bkerké; martedì appuntamento all’Hôpital Psychiatrique de la Croix di Jal el-Dib, preghiera silenziosa nel luogo della doppia esplosione del 4 agosto 2020 al porto e Messa sul lungomare. La partenza è prevista alle 13:15 del 2 dicembre. È un itinerario che ricompone la mappa della sofferenza e della resilienza di un Paese che resiste per istinto, più che per protezione.
Il viaggio arriva in un Libano che non vive in una campana di vetro. Mentre il convoglio papale attraversa la capitale, nel Sud continuano le tensioni legate agli strascichi della guerra, con raid israeliani e preoccupazioni legate alla presenza di Hezbollah. È questo contesto ad aver impedito al Pontefice di raggiungere l’area meridionale, dove comunità cristiane come quella di Rmeich chiedono semplicemente sicurezza per restare. La parola d’ordine del messaggio papale è “pace”, intesa come disarmo verbale, politico e confessionale, un invito a deporre le retoriche dell’odio e ad abbandonare la violenza commessa in nome di Dio.
Il Paese che accoglie il Papa è attraversato da una crisi economica e sociale senza precedenti. Dopo il collasso del 2019, la moneta si è dissolta, i risparmi di una vita sono spariti, la povertà è esplosa raggiungendo il 44% nel 2022 secondo la Banca Mondiale, mentre la povertà “multidimensionale” — un indice che somma reddito, accesso ai servizi e diritti — segna quasi il 73% della popolazione. Sono numeri che raccontano ospedali che funzionano a intermittenza, scuole allo stremo e famiglie che saltano i pasti. Eppure lo stesso organismo finanziario intravede per il 2025 un rimbalzo tecnico del PIL fino a +4,7%, sostenuto da un fragile consolidamento e da un timido ritorno dei visitatori. Fragile è la parola che torna in ogni conversazione.
Il Libano resta comunque un unicum regionale, con la più alta presenza cristiana del Medio Oriente — circa un terzo dei cittadini — e un sistema politico impostato sul bilanciamento confessionale: Presidenza ai maroniti, Premiership ai sunniti, Presidenza del Parlamento agli sciiti. Un compromesso sancito dal Patto Nazionale e dagli accordi di Ta’if del 1989, che ha garantito rappresentanza ma ha istituzionalizzato la competizione permanente tra comunità. Una formula che oggi affonda sotto il peso di crisi economiche, emigrazione e interferenze esterne. È dentro questa architettura complessa che si inserisce la visita del Papa.
Il protocollo militare che accompagna l’arrivo del Pontefice non è solo cerimonia, ma un messaggio alla classe politica. Leone XIV chiede ai leader libanesi di diventare “artigiani di pace”, di mettere riforme e unità nazionale davanti agli interessi settari e ai calcoli di potere, di abbandonare il linguaggio della paura che da anni blocca ogni passo avanti. Le strade chiuse per pochi minuti servono a sottolineare l’urgenza di riaprire le vie politiche oggi paralizzate.
Sul fronte istituzionale il Papa incontra il Presidente Joseph Aoun, eletto il 9 gennaio 2025 dopo oltre due anni di vuoto presidenziale, il presidente del Parlamento Nabih Berri e il Primo ministro Nawaf Salam, giurista di riconosciuta statura internazionale. Il loro presentarsi uniti davanti al Papa è un gesto simbolico che arriva in una fase di lacerazioni profonde. L’elezione di Aoun, sostenuta da attori internazionali, e la designazione di Salam, che ha ridato fiato alle speranze di un dialogo con le istituzioni finanziarie esterne, rappresentano passaggi importanti. Ma il nodo centrale resta lo stesso di sempre: trasformare i segnali in decisioni reali su banche, giustizia, energia e sicurezza.

Il cuore ecclesiale del viaggio guarda invece alla comunità cristiana, attraversata da un lento esodo. In Libano i cristiani sono circa il 32%, in calo, e in tutto il Medio Oriente sono passati in un secolo dal 20% al 5%. Leone XIV invita a restare dove possibile, e a non cedere alla rassegnazione dove non lo è, con una parola rivolta soprattutto ai giovani. È la generazione che fugge di più, impoverendo capitale umano e sociale. Parlare a loro significa ricordare che la cittadinanza non è un privilegio concesso, ma un diritto da esercitare ogni giorno.
Il momento più denso della visita resta la sosta silenziosa sul luogo della doppia esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut, dove morirono almeno 236 persone e migliaia rimasero ferite. L’inchiesta, ancora oggi, è bloccata da interferenze politiche, ricorsi e immunità che impediscono alla giustizia di arrivare ai responsabili. La preghiera del Papa è un gesto che diventa inevitabilmente politico: afferma il diritto delle famiglie alla verità e alla giustizia e richiama le autorità a togliere gli ostacoli che paralizzano l’indagine.
Il modello libanese di convivenza confessionale è spesso indicato come laboratorio politico, ma troppo spesso si traduce in veto reciproco, clientelismo e blocco istituzionale. Il Patto Nazionale del 1943 e gli accordi di Ta’if hanno codificato una divisione del potere che non riesce più a sostenere crisi sistemiche. Ogni riforma diventa oggetto di scambio, ogni emergenza — dall’energia ai tribunali — un campo di battaglia. Senza istituzioni più meritocratiche, trasparenti e meno vincolate alle quote confessionali, il Paese rischia una lenta implosione.
Dal 2019 la crisi finanziaria ha travolto le banche, la lira ha perso oltre il 90% del valore, i risparmiatori sono stati congelati e la dollarizzazione informale ha alterato prezzi e salari, creando una frattura tra chi ha accesso alla valuta forte e chi ne è escluso. Il Parlamento ha approvato una legge di ristrutturazione bancaria, ma senza una decisione chiara sulla ripartizione delle perdite il futuro rimane incerto. Per milioni di famiglie tutto questo si traduce in domande molto semplici: come pagare la spesa, la scuola, la luce?
La povertà si è estesa a interi governatorati, raggiungendo il 60–70% nelle aree più vulnerabili. La visita del Papa non ignora questi numeri e richiama l’attenzione su dignità, lavoro, sanità ed educazione come pilastri indispensabili della convivenza. A questo si aggiunge il tema dei rifugiati: il Libano continua a ospitare il più alto numero di sfollati pro capite al mondo. Secondo UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), a fine 2024 i rifugiati registrati erano 758.651, in gran parte siriani, mentre stime governative parlano da anni di oltre 1,5 milioni di siriani presenti. Nel 2025 è stato avviato un programma delle Nazioni Unite per i ritorni volontari con supporto economico e logistico, ma la questione resta esplosiva.
Il messaggio del Papa si rivolge a tre interlocutori. Alle istituzioni chiede responsabilità, riforme vere e fine dell’impunità su porto, corruzione e abusi di potere. Un Paese non può reggersi se lo Stato non torna ad essere neutrale e forte nelle funzioni essenziali. Alle comunità religiose chiede di tutelare la casa comune, disinnescare la retorica dell’odio e ricucire i fili logorati da anni di sospetti. Ai giovani chiede il coraggio di restare, se possibile, e la libertà di tornare, se lo desiderano, perché senza una generazione che studia e lavora nessuna riforma potrà mai reggere.
Il Libano, per la sua composizione unica, resta un Paese-chiave per i cristiani d’Oriente. Qui le Chiese conservano ancora una massa critica, istituzioni educative e sanitarie capaci di servire tutti, indipendentemente dall’appartenenza. Se il Paese perde la sua pluralità, l’effetto domino investe l’intera regione. Non è un caso che Leone XIV abbia scelto Beirut come secondo atto del suo primo viaggio internazionale. Il suo messaggio è rivolto anche alla comunità internazionale: sostenere il Libano non significa solo inviare fondi, ma accompagnare riforme che spezzino i circoli viziosi di corruzione e paralisi decisionale.
In tre giorni, tra salve d’onore e liturgie, il Papa propone una grammatica politica minima: dialogo, legalità, memoria, cura dei più vulnerabili, unità nella diversità. Non è un programma di governo, ma un programma di convivenza civile. Se attecchirà lo diranno i prossimi mesi, tra bilanci da chiudere, leggi da approvare, cantieri da riaprire, famiglie da proteggere. Oggi, intanto, in una domenica di fine novembre 2025, la città che ha vissuto tutto — gloria, macerie, rinascite — si ritrova a fare ciò che sa fare meglio: ascoltare. E sperare.
Quando l’Airbus papale lascerà la pista, resteranno alcune immagini: il silenzio del porto, la folla sul lungomare, la stretta di mano con i leader, l’abbraccio ai pazienti psichiatrici, i cori dei ragazzi. Resterà soprattutto una domanda: chi, tra i poteri della Repubblica, trasformerà una visita pastorale in una occasione politica concreta? La risposta non si misurerà in giorni, ma in atti: riforme approvate, indagini sbloccate, tutele sociali estese, spazi civici riaperti. Il Libano ha saputo rialzarsi più volte. Ora servono volontà e coraggio perché la parola “pace”, ripetuta e invocata in queste 48 ore, smetta di essere un’eccezione e torni ad essere una regola.
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