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Lo Stiletto di Clio
26 Novembre 2025 - 22:38
Calderaio ambulante al lavoro
S’incamminano a piedi quando cade la prima neve, a frotte rade di tre o quattro al più. Eccoli, vengon giù con passi cadenzati; portano sul groppone la forgia e il tascone coi ferri del mestiere: incudini, martelli e mazzuoli pei fondi dei paiuoli, lime, tagliuoli, tenaglie e saldatoi, pinze, trapani e cesoie. E ancora: Camminano per tutte le strade del Piemonte, della Lombardia, della Liguria, prima apprendisti, poi garzoni, poi padroni. Gente dal pelo fulvo, dagli occhi chiari, dalle membra solide, dalle teste dure, dalle facce, dalle mani piene di fuliggine.
Così Salvator Gotta (1887-1980), originario di Montalto Dora, presenta i calderai ambulanti, cioè i «magnin», che giravano di paese in paese, vendendo e riparando utensili di rame, stagnando il pentolame e acquistando i rottami da avviare a nuova fusione. «Magnin», come precisa Vittorio Righini di Sant’Albino (1787-1865), autore di un noto dizionario piemontese, è colui che «fa utensili di rame», vale a dire «caldaie, paioli, casseruole, padelle e simili, ad uso dell’economia domestica e di varie arti».
Il termine deriva forse dal latino volgare «manianus» che, a sua volta, discenderebbe da «mania» (mano; «manus» nella lingua classica) oppure dal basso latino «manua» (maniglia).

Il canto del rame ovvero un «magnin» all'opera
La maggior parte dei calderai proveniva dall’alto Canavese, in particolare dalle valli dei torrenti Orco e Soana, le cui popolazioni vantano un’autentica vocazione metallurgica. È sufficiente ricordare che gli statuti medioevali di Pont già disciplinavano l’attività dei fabbricanti di «cacabos seu payrolios» (pentole e paioli), mentre in un documento del 1647 si precisa che gli abitanti di Ribordone erano «sempre stati suoliti [...] andar e trafficar per li stati di S[ua] A[ltezza] R[eale] et fuori, esercendo l’arte di magnano e parollaro».
Dall’attività itinerante i ribordonesi ricavavano «grandissimo utile e guadagno».
I «magnin» canavesani erano attivi in tutta l’Italia settentrionale e in Toscana, ma sovente si spingevano pure all’estero (Francia, Spagna, Svizzera, Austria, Germania, Belgio e Croazia). Per comunicare fra loro ricorrevano abitualmente a un gergo caratteristico, la cosiddetta «ruga», un «argot» comprensibile solo da coloro che avevano in comune provenienza valligiana ed esperienza professionale.
L’attrezzatura per il lavoro era costituita dall’incudine, da una fucina o forgia col mantice, da alcuni recipienti per l’acido muriatico diluito in acqua, da un saldatore a mazzetta e da pochi altri utensili (martello, tenaglie, punzoni, scalpello, ecc.).
Con le sue numerose borgate, Locana costituiva un vero centro dei «magnin». Già nella seconda metà dell’Ottocento, il corografo Antonio Bertolotti (1834-1893), nato a Lombardore, scriveva che gli abitanti del luogo, dediti «in genere alla pastorizia», erano soliti emigrare «temporariamente all’estero e per l’interno quali calderai e magnani».
«Nel concentrico, soprattutto nel secolo scorso» – afferma Angelo Paviolo (1924-2013), cittadino onorario di Locana e autore di un bel saggio storico sui calderai delle valli Orco e Soana – «molti erano i commerci collegati all’attività degli itineranti, e vi erano piccole fucine che lavoravano il rame, consegnato in buona parte ai negozianti o direttamente ai “magnin” che lo avrebbero poi offerto per le strade di Piemonte, Lombardia, Liguria, Francia e Svizzera».
Ovviamente non esistevano solo calderai itineranti. Nei paesi e nelle città molti artigiani del rame avevano la loro piccola bottega dove fabbricavano, stagnavano e vendevano padelle e tegami.
In un elenco dei canavesani che esercitavano l’attività di calderaio all’incirca fra il 1925 e il 1939 compaiono Besso Ughetti e Giacomo Balma Mion, entrambi con bottega a Settimo Torinese.
Ughetti era soprannominato «Ël magnin ëd Santa Cros» poiché abitava e lavorava in prossimità dell’omonima chiesa di Santa Croce, nell’attuale via Don Stefano Sales.
Balma Mion, invece, svolgeva il suo mestiere nel Ghetto, il popolare caseggiato che sorgeva lungo il canale Barbacana (ora via Franklin Delano Roosevelt), parzialmente demolito in anni non lontani.
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