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09 Ottobre 2025 - 23:58
A Settimo Torinese il Dado è diventato una parola che pesa. Pesa come i 15 anni di carte, progetti, rinvii e buone intenzioni. Doveva essere un modello di inclusione, oggi è la fotografia di una burocrazia che gira su sé stessa. Tutto comincia nel lontano 2008, quando il Comune decide di dare nuova vita a un vecchio stabile di via Cottolengo, affidandolo all’associazione Terra del Fuoco. L’idea era tanto semplice quanto ambiziosa: creare un “condominio solidale” per famiglie rom provenienti da insediamenti irregolari, accompagnandole verso l’autonomia. Un esperimento sociale, un laboratorio di convivenza.
Il Dado, lo chiamavano così perché doveva rotolare verso il futuro.
Poi la storia si complica. Gli anni passano, i fondi finiscono, l’entusiasmo evapora. Il Dado resta lì, mezzo chiuso e mezzo dimenticato, con dentro la promessa mai mantenuta di un’integrazione possibile.
Quando la sindaca "visionaria" Elena Piastra decide di rilanciarlo, siamo già nell’epoca del PNRR e dei finanziamenti europei. L’occasione è ghiotta: rifare il Dado da capo, trasformarlo in un “Condominio Partecipato” con dieci alloggi popolari, un facilitatore di comunità e un sogno: fare dell’abitare un’esperienza collettiva, non un isolamento disperato. Il progetto viene inserito nel Piano Nazionale Complementare, con quasi 1,8 milioni di euro di fondi pubblici. I lavori partono, si annuncia l’imminente consegna, si scrivono comunicati, si fissano date.
Ma a Settimo le buone idee spesso si perdono nel labirinto degli atti. Il 28 agosto 2025 la Giunta approva la delibera n. 200, in cui si definiscono gli “indirizzi attuativi” del nuovo Dado: durata quinquennale, figura del facilitatore, 10 ore settimanali di presenza, alloggio A3 al piano terra con canone simbolico di 100 euro.
Tutto pronto, tutto “immediatamente eseguibile”. Peccato che subito dopo, nella stessa delibera, si legga che i due candidati selezionati hanno rinunciato e che l’alloggio del facilitatore “non è stato ancora assegnato”. In pratica, si approva un progetto già bloccato. La Giunta scrive nero su bianco che “occorre individuare un altro soggetto facilitatore”, valutandone “non solo il titolo accademico, ma le competenze socio-sanitarie e interculturali”. Tradotto: ci si accorge all’ultimo momento che serve una figura più complessa di quella pensata e a pensarla era stata Piastra.
Il primo settembre, con determinazione dirigenziale n. 832, si riparte da capo. Nuovo bando, nuova durata (24 mesi rinnovabili invece dei cinque anni del progetto), stesso alloggio da 48,46 metri quadri, stesso canone, ma con una precisazione: il facilitatore deve avere “competenze educative e sociali” per promuovere “la convivenza e l’animazione del condominio”. E qui la lentezza diventa sistema: ogni passaggio amministrativo si trasforma in una nuova procedura, ogni urgenza diventa un rinvio. Tutto, rigorosamente, “immediatamente eseguibile”.
Nel frattempo, la stessa amministrazione prova ad allargare l’esperimento del co-housing. Nel 2023 aveva approvato una prima delibera (n. 267) per l’attivazione di un progetto rivolto a donne in difficoltà, in collaborazione con i Servizi Sociali dell’Unione NET e le cooperative del territorio.
Poi, a fine 2024, arriva l’idea gemella: un co-housing maschile al civico 4 di via Palestro per uomini adulti autosufficienti, con due anni di permanenza finalizzati al reinserimento sociale. Ma anche qui la realtà è più dura della teoria. A settembre 2025, nella delibera n. 209, la Giunta ammette che il progetto “non è stato possibile attivarlo”. Gli uomini individuati – scrivono – sono per la maggior parte oltre i 55 anni, con problemi di salute, situazioni economiche gravi e, in alcuni casi, precedenti giudiziari. Insomma, esattamente il profilo che quel tipo di co-housing non poteva accogliere. E allora si cambia idea: l’alloggio comunale, prima destinato agli uomini, viene riconvertito in un co-housing femminile.
Il nuovo progetto, affidato alla Cooperativa Valdocco, riprende il modello femminile già avviato: donne sole o con figli minori, in difficoltà abitativa, seguite da un supporto educativo che favorisca la formazione, l’inserimento lavorativo e l’autonomia economica. Secondo l’amministrazione, questa formula “si è dimostrata più efficiente ed efficace rispetto agli altri sistemi di supporto abitativo”. Ma anche qui il copione è lo stesso: tutto “immediatamente eseguibile”, tutto da riattivare, tutto in attesa che qualcuno firmi, verifichi, assegni.
Alla fine, quello che resta del Dado è una parabola perfetta della macchina comunale: una buona idea inghiottita da quindici anni di carte. Si è partiti da un esperimento sociale per l’inclusione, si è passati a un progetto di edilizia pubblica, si è approdati a un co-housing diviso per genere e oggi, a quasi vent’anni dal primo Dado, ci sono dieci alloggi pronti, un facilitatore ancora da trovare e una comunità che dovrebbe “favorire processi di inclusione e coesione sociale”, come recita la L.R. 3/2010. Ma i processi, a Settimo, sembrano più burocratici che sociali. Il Dado doveva essere un punto di partenza, è diventato un sinonimo di attesa. Rotola, sì, ma sul posto.
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