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23 Aprile 2025 - 17:30
Entusiasmo a mille...
Ormai a Settimo Torinese, se non sei a un festival, probabilmente sei nel posto sbagliato. Perché in questa sorridente e ridente cittadina dell’hinterland torinese, guidata dalla visionaria Elena Piastra e che tutta Europa invidia all'Italia – dove un tempo si faceva industria vera e oggi si fabbricano attestati di partecipazione – ogni giorno è buono per un evento, ogni angolo è buono per una conferenza stampa e ogni assessorato sembra avere un solo obiettivo: apparire in una locandina, possibilmente con cornice dorata e hashtag d’autore.
Nelle ultime settimane abbiamo contato, nell’ordine: il Festival dell’Amministrazione Condivisa, il Festival del Verde, il Festival dell’Inclusione, quello dei Giovani, il Nice Festival e pure il Festival dei Linguaggi – che non è un corso d’inglese, ma un tripudio di seminari, post-it colorati e parole che piacciono ai bandi europei. E se ancora non vi basta, ricordate: a Settimo c’è anche l’ormai mitologico Festival dell’Innovazione e della Scienza. Che, attenzione, non è un evento: è un’industria parallela.
Già, perché il Festival dell’Innovazione costa. Costa tanto. Una cifra significativa, sostenuta da fondi pubblici e sponsorizzazioni, e tiene occupata una Fondazione intera per tutto l’anno: quella guidata da Dario Netto, figura mitologica della cultura settimese, a metà tra il guru digitale e il curatore di contenuti al sapore di algoritmo. Mentre i cittadini si chiedono chi debba asfaltare le strade, la Fondazione produce panel, ospita ospiti, stampa brochure e crea engagement – la parola magica con cui giustificare qualsiasi spesa.
Basta scorrere la pagina Facebook del Comune per sentirsi catapultati in una fiera permanente dell’entusiasmo che contagia.
Ed è lì che gli amministratori, con la gioia di chi ha appena scoperto i filtri di Canva, postano con orgoglio le menzioni speciali ricevute ad Assisi, i riconoscimenti europei ancora da vincere e i festival locali dove finalmente possono parlare di quanto sono bravi… a parlare.
Ultimo trofeo in ordine di apparizione: il progetto “Young Divercity 3”, che a occhio pare il titolo di un album trap, ma in realtà è un’attività che coinvolge i giovani in laboratori e incontri per “curare i beni comuni”.
Il premio? Una riproduzione numerata di un’opera artistica. Cioè: ti fai sei mesi di tavoli tecnici e ti regalano un quadro stampato. Come se dopo un master ti dessero un poster dell'università.
Ma la vera punta di diamante arriva con la partecipazione di Settimo al Festival del Verde, dove il Comune presenterà – udite udite – l’anteprima del “Piano del verde e del blu”. Titolo che fa pensare a un libro di Fabio Volo scritto a quattro mani con un botanico. Nella pratica, sarà l’ennesimo documento tecnico sbandierato come rivoluzione urbanistica, rigorosamente condito con eventi per famiglie e bambini, così da diluire la noia in zucchero a velo.
E non poteva mancare l’inclusione: Settimo è finalista come Capitale Europea dell’Inclusione. Merito, dicono, delle iniziative per disabili, rifugiati, LGBTQ+, e per la lotta a qualsiasi forma di discriminazione. Benissimo, intendiamoci. Ma viene il dubbio che, più che cambiare davvero la vita alle persone, qui si punti a confezionare dossier perfetti da spedire a Bruxelles, con tutte le parole chiave nel posto giusto. Che poi l’UE si sa: se scrivi “integrazione, resilienza, gender equality” tre volte nello stesso foglio, un premio te lo danno.
E ALLORA? E allora bravi, bravissimi. A Settimo l’amministrazione ha imparato l’arte della narrazione istituzionale: ogni progetto è un festival, ogni bando è una vision, ogni dichiarazione è un hashtag. Il tutto condito con un entusiasmo sospetto, da chi sembra più preoccupato di vincere premi che di risolvere problemi. E poco importa se la città reale aspetta, se i marciapiedi restano quelli della seconda guerra mondiale, se la manutenzione è un miraggio e il coinvolgimento dei cittadini si riduce a un’intervista da workshop da infilare in una slide.
Certo, fa scena dire che “la cittadinanza attiva è il nostro obiettivo”. Ma finché gli atti veri li scrivono tre tecnici e li leggono in dodici, il rischio è quello di partecipare a tutto… tranne che alla realtà.
Ora, sia chiaro: fare cultura non è peccato. Coinvolgere i giovani è un dovere. Parlare di inclusione, ambiente e futuro è fondamentale. Ma quando tutto diventa festival, niente è serio. Quando ogni attività ordinaria viene incartata con fiocchi e nastri, il sospetto è che si punti più a raccontarsi che a risolversi.
Un consiglio: se proprio dobbiamo sognare, almeno facciamolo fino in fondo. Ridateci il Festivalbar. Almeno lì si ballava davvero.
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