Il 9 giugno scorso in occasione della riapertura del Cinema Petrarca è stato proiettato il documentario “Sul sentiero Blu”, il documentario diretto da Gabriele Vacis e prodotto da Michele Fornasero per Indyca che racconta il viaggio di 200 chilometri a piedi lungo la via francigena, da Acquapendente a Roma, fatto da un gruppo di ragazzi autistici.
Non avendo potuto esserci, ieri ho recuperato e sono andato a vederne la proiezione all’Evergreen Festival presso la Tesoriera di Torino.
La proiezione è stata fatta con l’ausilio di radio cuffie, per cui l’esperienza è stata aiutata da questa sorta di isolamento immersivo che ha favorito la qualità dell’ascolto; un isolamento un po’ straniante in un contesto di proiezione all’aperto dove in genere il suono è sempre un punto debole. La cosa ha generato un piccolo dibattito sollevato da Gabriele Vacis sulla sua pagina, se vi interessa potete recuperalo su facebook.
Una immersione dunque in un mondo per me poco conosciuto. Tanto che la prima sensazione che ho avuto mentre scorrevano le immagini è stata quasi di imbarazzo, di intrusione; la telecamera puntata dritta nelle esperienze di altri individui, come un occhio indiscreto, un buco nella serratura nella sofferenza (ma anche nella gioia) dei protagonisti. Una cosa a cui dovremmo essere tutto sommato abituati, visto il proliferare di reality nei canali media. In questo caso tuttavia ci si rende subito conto della naturale noncuranza dei ragazzi rispetto alla videocamera. Sarà forse per la capacità degli operatori, per la loro discrezione, oppure per il lavoro di montaggio; fatto sta che sin dall’inizio non puoi fare altro che lasciarti trascinare nel disinibito scorrere delle emozioni che si manifestano, evidentemente senza alcun freno.
E li avviene la trasformazione dell’opera che stai guardando. Mentre credi di stare assistendo ad una cronaca di eventi, finisci trasportato in un racconto; un racconto epico, nel quale non puoi fare a meno di immedesimarti.
Già perché il film, come tutti i prodotti artistici che valgano qualcosa, si carica di diversi livelli di lettura; costruisce un significato intorno alla forma, un significato aperto alla lettura dello spettatore.
Nelle storie e nei miti tradizionali, da Omero agli Avengers, lo schema dell’avventura è codificato in quello che comunemente si definisce “Ciclo dell’eroe”. L’eroe viene trascinato dagli eventi a confrontarsi con un mondo diverso dalla sua ordinarietà, affronta il pericolo, la discesa agli inferi, affronta la crisi, la risolve, vince e ritorna non solo vincitore, ma anche trasformato, consapevole delle sue possibilità.
E’ quello che succede ai ragazzi, in effetti, ma potrebbe benissimo essere la trama di un racconto epico.
Mentre osserviamo questi ragazzi, sempre nel nostro buco della serratura, non facciamo altro che aprire una lente su noi stessi, sulle nostre stesse diversità, il nostro modo di stare al mondo. Come ha chiarito lo stesso Vacis introducendo la proiezione, qui non si parla di patologia (o di malattia da curare) si parla di una diversa abilità, ovvero un diverso modo di stare al mondo. Ma quella diversità la viviamo noi stessi ogni giorno. Lo stesso sconforto che proviamo quando il mondo intorno a noi cambia le coordinate. Emozioni simili, che possiamo provare tutti (immedesimandoci nei personaggi della storia) eppure tutte personali, uniche, mentre siamo li a tifare per il superamento di quell’ultima salita.