Le fiere esercitano sempre un fascino sottile. Attraggono folle curiose, trasmettono emozioni antiche, evocano ricordi suggestivi che affiorano dalle nebbie del tempo. Ogni fiera ha la propria storia, i propri segreti, la propria poesia. La rassegna che si tiene in novembre a Settimo Torinese non fa eccezione. Per un paio di giorni, le strade e le piazze del centro cittadino conoscono un’animazione inconsueta: la gente si accalca attorno alle bancarelle, le voci e i suoni si confondono, ovunque aleggia un’atmosfera di sagra paesana. Le atmosfere ovattate di novembre, i meriggi appena tiepidi, il vento di tramontana che ghermisce le foglie secche, l’odore dei funghi e delle caldarroste ben si addicono alla manifestazione di autunno che evoca immagini di vita e di serena operosità nei campi. Perché la fiera è incanto, suggestione, poesia. È il fascino delle cose semplici e antiche, la freschezza dei ricordi tratti dal geloso scrigno della memoria. Le origini della manifestazione risalgono al marzo 1848 allorché il Comune di Settimo ottenne la facoltà di organizzare due fiere, rispettivamente il 26 maggio e il 19 ottobre di ogni anno. Emanato dal re Carlo Alberto, il provvedimento ben si colloca nell’ambito della politica riformistica sabauda che mirava a dare nuovi impulsi all’agricoltura e ai commerci. Ma l’Europa era in subbuglio. Di lì a pochi giorni l’esercito piemontese avrebbe varcato il Ticino: cominciava quella prima guerra d’indipendenza che si sarebbe conclusa con la tragica sconfitta di Novara e l’abdicazione del sovrano in favore del figlio Vittorio Emanuele. I gravissimi problemi di quegli anni – cattive annate agricole, recessione economica e inasprimento fiscale – non permisero a Settimo di allestire alcuna rassegna agricola. Solo nel 1853 l’amministrazione municipale presieduta dal sindaco Domenico Sgherlino decise di dare corso al regio provvedimento. Dieci anni dopo la fiera d’autunno fu posticipata al terzo lunedì di novembre. Però l’atteso successo giunse più tardi, negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando la rassegna s’impose quale appuntamento di richiamo in tutto il circondario. Alla fiera accorrevano i venditori di zoccoli, gli stagnari e i calderai, gli impagliatori di sedie, i negozianti di bestiame, gli imbonitori e i cantastorie. Ovviamente non mancavano i contadini con i prodotti agricoli di stagione. E le locande facevano affari d’oro. Speciale rinomanza assumeva il commercio dei cavoli, l’umile ortaggio per il quale gli agricoltori del territorio erano conosciuti in Torino e nella provincia. «Settimo produce in discreta quantità canapa e cavoli», si legge in una relazione dell’epoca. Dei cavoli di Settimo «si provvede quasi tutto il Canavese», osservava il corografo Antonino Bertolotti. Nuovamente riproposta a partire dal 1974, dopo un lungo periodo di crisi, la rassegna di metà novembre è oggi un felice esempio di come la tradizione possa essere salvaguardata e valorizzata in armonia coi tempi moderni. E se l’agricoltura è ormai ridotta al lumicino, se i cavoli hanno smesso da tempo di costituire un’importante fonte d’introito per i contadini, poco importa. Conta che la fiera d’autunno riunisca la gente, la invogli a stare insieme e a comunicare, rompendo il ritmo di una vita quotidiana troppo massificata.
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