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Gaza affoga nel fango e nei liquami: il terzo inverno è una condanna

Piogge torrenziali trasformano i campi profughi in paludi contaminate. Tende che cedono, bambini malati, aiuti bloccati ai valichi: la Striscia entra nel terzo inverno con l’80% delle strutture distrutte e un’emergenza che il cessate il fuoco non ha fermato

Una bambina di sette anni, le maniche arrotolate, spinge via l’acqua con una bacinella azzurra. Dietro di lei, il telo della tenda batte come una vela strappata, incapace di proteggere da un vento che sembra tagliare l’aria. Intorno, quaderni che non si aprono più, materassi diventati spugne, scarpe colme di sabbia e fango. “Qui la pioggia non è una benedizione, è un’altra minaccia”, sussurra la madre mentre stende al vento vestiti che non avranno il tempo di asciugarsi. Negli ultimi giorni, acquazzoni improvvisi hanno invaso i campi di sfollati da Deir al-Balah fino a Khan Yunis, trasformando strade sterrate in canali e sommergendo quel poco che restava: stoviglie, documenti, coperte. In alcune zone l’acqua ha superato i cinquanta centimetri, travolgendo migliaia di tende e costringendo alla sospensione perfino un ospedale da campo.

È una scena ormai ordinaria nella Striscia di Gaza, dove la popolazione entra nel suo terzo inverno dall’inizio dell’offensiva del 2023. E ci entra in un paesaggio in cui oltre l’80% delle strutture risulta danneggiato o distrutto: non solo case, ma scuole, ospedali, impianti idrici, reti fognarie, canali di drenaggio. Un territorio reso frammento dopo frammento quasi inabitabile, dove anche un temporale diventa un rischio collettivo.

Il primo vero temporale di metà novembre ha funzionato come una prova di resistenza su un sistema già collassato: migliaia di famiglie hanno visto l’acqua filtrare nell’unico riparo rimasto, spesso una tenda consunta piantata a bassa quota, su terreni costieri incapaci di drenare. Le Nazioni Unite stimano che quegli acquazzoni abbiano colpito oltre 13.000 famiglie, distruggendo o danneggiando migliaia di ripari e interrompendo operazioni umanitarie che dipendono da un equilibrio già precario.

bambini

Il problema non è solo la pioggia, ma ciò che incontra nel suo percorso. Le reti fognarie sono distrutte, i canali di scolo sono pieni di macerie e sabbia, le strade sono talmente dissestate che i mezzi di soccorso avanzano centimetro dopo centimetro. L’acqua, senza alcuna via di fuga, si mescola ai liquami, ai rifiuti, ai residui di carburanti. Entra nelle tende, contamina vestiti e materassi, rende inutilizzabili coperte già logorate. Le immagini più recenti mostrano famiglie che svuotano l’acqua con secchi e pentole, mentre il vento stacca i teli dalle strutture di sostegno.

La misura della distruzione arriva anche dall’alto. Le analisi satellitari dell’UNOSAT, il centro delle Nazioni Unitespecializzato nel telerilevamento, mostrano che all’11 ottobre 2025 circa l’81% delle strutture della Striscia risulta danneggiato, con oltre 123.000 edifici completamente distrutti. Un peggioramento netto rispetto all’estate precedente, prova che la devastazione non si è mai arrestata. Già nel 2024 una valutazione congiunta della Banca Mondiale e dell’ONU stimava in 18,5 miliardi di dollari i danni alle infrastrutture fino a gennaio di quell’anno, pari al 97% del prodotto interno lordo combinato di Cisgiordania e Gaza nel 2022. Una cifra oggi superata, ma utile per comprendere l’enormità del disastro: decine di milioni di tonnellate di macerie che richiederanno anni per essere rimosse.

La distruzione non è uniforme. Aree urbane come Gaza City, Rafah e Khan Yunis concentrano il maggior numero di edifici colpiti. Il collasso delle scuole è quasi totale: secondo il Cluster Educazione, che analizza edifici scolastici tramite immagini satellitari, oltre il 90% degli istituti necessita di ricostruzione o interventi strutturali profondi. Anche se non piovesse più, l’istruzione non avrebbe comunque un tetto sotto cui ripartire.

E quando piove, la pioggia diventa un problema sanitario. Le condotte idriche sono spezzate, le stazioni di pompaggio non hanno ricambi, i pozzetti sono tappati dai detriti. Un fenomeno meteorologico ordinario, in una terra mediterranea, qui diventa un’emergenza sanitaria. L’acqua che penetra nelle tende non è solo pioggia ma miscela di liquami, batteri, rifiuti organici. Non sorprende che organizzazioni come Save the Children abbiano lanciato l’allarme: bambini che dormono con abiti fradici di acqua sporca, senza scarpe, senza un cambio asciutto, esposti a ipotermia, infezioni cutanee, malattie gastrointestinali.

Il 14 novembre, i temporali hanno interrotto la distribuzione degli aiuti e l’erogazione dei servizi essenziali. Tra il 14 e il 16 novembre il sistema umanitario ha distribuito oltre 80.000 teloni, decine di migliaia di coperte e migliaia di tende. Ma la portata degli interventi non ha retto alle piogge successive, né può compensare la mancanza di materiali dovuta ai vincoli di accesso.

Dal 10 ottobre 2025 è in vigore un cessate il fuoco, ma la sicurezza quotidiana non è tornata. Spari, droni, esplosioni continuano a essere segnalati. Per molte famiglie il silenzio dell’artiglieria pesante si è trasformato in una lotta più sottile ma costante: trovare un riparo asciutto, un pasto caldo, un antibiotico. Le agenzie ONU spiegano che la tregua ha aperto qualche spazio logistico, ma l’accesso resta limitato, discontinuo e imprevedibile.

Le piogge di fine novembre hanno aggravato la situazione anche nei rifugi designati come ufficiali: una valutazione del Site Management Cluster ha registrato almeno 32 strutture colpite. Un dato che indica quanto sia fragile il concetto stesso di “riparo”.

Il collo di bottiglia rimane l’ingresso dei materiali. A tre settimane dalla tregua, il Shelter Cluster, coordinato dal Norwegian Refugee Council (NRC), denunciava milioni di articoli bloccati tra Giordania, Egitto e Israele in attesa di autorizzazioni. Ventitré richieste da parte di nove ONG per materiali di prima necessità – tende, kit impermeabili, coperte – sono state respinte, lasciando circa 260.000 famiglie, cioè quasi un milione e mezzo di persone, esposte al freddo e alla pioggia. Le autorità israeliane ribattono che i ritardi dipendono da inefficienze nella distribuzione o da furti; le organizzazioni umanitarie rispondono che il principale ostacolo è la lista dei materiali considerati a “doppio uso”, che include persino pali e tiranti per le tende.

In queste condizioni, la salute dei più vulnerabili è un equilibrio precario. La World Health Organization (Organizzazione Mondiale della Sanità) segnala un aumento di infezioni respiratorie, diarrea acquosa, malattie della pelle. L’acqua contaminata ristagna nei campi, i genitori raccontano notti di febbre e tosse, senza termometri né farmaci. Anche quando gli aiuti entrano, la catena del freddo subisce continui blackout elettrici. Ogni temporale rallenta i convogli, impone deviazioni, rende più rischiosi gli spostamenti delle equipe sanitarie. Intanto nei campi si accendono fuochi con legna umida, cartoni, plastica: l’aria diventa densa, e la dispnea nei bambini non è più un’eccezione.

Il cibo caldo è una delle poche difese disponibili. Al 27 novembre le Nazioni Unite riportavano la distribuzione di oltre un milione e mezzo di pasti al giorno tramite più di duecento cucine comunitarie. Un risultato enorme, ma insufficiente se non accompagnato da ripari asciutti. L’acqua piovana spegne i fornelli, bagna gli alimenti, costringe le famiglie a fare la fila tra vento e fango per una ciotola di zuppa. La saturazione dei terreni costieri, dove si concentra la maggior parte degli sfollati, fa sì che anche mezz’ora di pioggia provochi allagamenti diffusi, trasformando indumenti asciutti e coperte termiche in beni rari.

Il concetto di “terzo inverno” rischia di sembrare un dettaglio cronologico, ma significa qualcos’altro: significa famiglie che hanno affrontato due stagioni fredde in tende pensate per pochi mesi, che ora si trovano logore, rattoppate, con cerniere che non chiudono più, pali piegati, cuciture allentate. Significa bambini che non vanno regolarmente a scuola da due anni, genitori che hanno finito i risparmi, una rete di solidarietà familiare ormai al limite. La UNRWA avverte che centinaia di migliaia di sfollati affrontano l’inverno “senza protezione e senza il necessario”, in tende che si allagano nel giro di pochi minuti.

Il tempo corrode tutto. Una tenda progettata per sei mesi non può reggere tre anni consecutivi di sole, sale, sabbia, vento e pioggia. Il tessuto si assottiglia, i tiranti cedono, il suolo fradicio non trattiene più i picchetti. Quando arriva un nuovo temporale, la domanda non è se l’acqua entrerà, ma quanta e per quanto rimarrà nel terreno.

Nonostante questo quadro, qualche margine di azione esiste. Dopo le piogge di metà novembre il sistema umanitario è riuscito a distribuire decine di migliaia di teloni, coperte e tende; dopo le nuove piogge di fine mese, sono state avviate ulteriori verifiche nei 32 rifugi ufficiali allagati. Gli interventi non mancano, ma sono pensati per un’emergenza breve, mentre Gaza vive un’emergenza lunga, complessa, senza un orizzonte temporale definito. Un terzo inverno che non è la coda dell’anomalia, ma la normalizzazione della fragilità.

In questo scenario, l’immagine più efficace per capire la situazione non è quella dei convogli bloccati ai valichi, ma il gesto quotidiano della bambina con la bacinella azzurra. Ogni secchio d’acqua tolto dalla tenda è un’ora di sonno in più, una febbre in meno, un paio di scarpe che non marciscono. La durezza dell’inverno dipenderà da quanto rapidamente pali, pompe, teloni e ricambi saranno autorizzati a entrare, da quante coperte asciutte arriveranno prima delle prossime piogge, da quante cucine comunitarie riusciranno a tenere accesa la fiamma nonostante il vento. E da quante scuole, un giorno, troveranno un’aula asciutta per riportare i bambini alla loro normalità più semplice: imparare.

Perché l’alternativa, nei campi, è aspettare il prossimo scroscio. E sperare che duri poco.

Nota metodologica

I dati e le testimonianze citati nel presente articolo provengono da fonti verificabili e pubbliche, tra cui aggiornamenti dell’OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs), analisi satellitari dell’UNOSAT, corrispondenze internazionali, documenti ufficiali e comunicati delle ONG attive sul terreno. Gli eventi si riferiscono al mese di novembre 2025 e la situazione è oggetto di continui aggiornamenti; laddove possibile, sono state incrociate più fonti per evitare ridondanze o sovrastime.

Fonti consultate:
Le Monde, Reuters, Associated Press, OCHA, UNOSAT/UNITAR, Banca Mondiale/ONU, Washington Post, Save the Children, Norwegian Refugee Council / Shelter Cluster, Al Jazeera

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