Mi sono reso conto che, pur avendolo citato più volte e aver parlato diffusamente di pane e companatico, ho trascurato una tra le principali fonti di reddito delle nostre terre. Tanto fondamentale da autorizzare chiunque, quando parla di Langa, a parlare di civiltà del vino.
Mi è venuto in mente l’argomento perché… oggi ho bevuto un vino veramente, veramente schifoso. Oserei dire che forse non si dovrebbe chiamarlo vino.
L’unica funzione che ha avuto è stata richiamare alla mia memoria una ridda di ricordi inerenti il vino fatto male. Perché il vino è una cosa che molti producono, senza sapere in definitiva come si fa.
E fino a una decina di anni fa, quando non c’erano internet e libri a spiegare il processo, ci si basava sulle tradizioni di famiglia. Se Nonu era un crin, tutte le generazioni a venire bevevano porcheria. E il peggio è che costringevano a berlo anche gli ospiti: «Ti faccio assaggiare un bicchiere di quello buono!»
Era la frase che più temevi. Perché il padrone di casa, cresciuto a brodaglia sin dalla tenera età, era convinto che il suo fosse buono e quello degli altri sbagliato. Descrivere certi bicchieri è penoso per i sensi ancora oggi. Bruschi, allappanti, con un colore che tingeva anche i bicchieri.
«U fá ëd gradi!» era l’esclamazione tipica, di fronte all’espressione contratta che assumeva involontariamente il tuo viso. Lo sentivi scendere per tutta la trachea, sfondare a calci il piloro e calare piano piano, ma con risolutezza, per tutto l’intestino.
Poi, dopo due ore, quando pensavi di averlo tuo malgrado metabolizzato, ti “arveniva” e ritornava su a devastarti il palato. I peggiori facevano ping pong ancora dopo due giorni. Alcuni poi, erano talmente convinti della bontà del prodotto, che se lo portavano dietro persino quando li invitavi al ristorante.
«Tasta! Assaggia! È Barbera… U finiva pi naint ed böji!»
E tu, per essere gentile, cercando di gestire sapientemente i muscoli facciali, rispondevi: «Ma sai che non sembra neppure Barbera tanto che è buono?»

E non ti allontanavi dalla realtà perché Nonu non era andato per il sottile neppure nella selezione dei vitigni. Nella stessa vigna coesistevano spesso sei o sette tipi di piante differenti che in comune avevano solo il colore del grappolo.
«Quest’anno poi… u mùsa da matt!»
Perché dopo due mesi in bottiglia, i batteri selezionati da generazioni di tini non lavati, riuscivano a vivere anche al chiuso, come i solfobatteri della dorsale oceanica, sopravvissuti agli anossici mari primordiali. Oggi è diverso purtroppo e per fortuna. I clienti chiedono vini piú o meno tutti uguali, robusti e con forti profumi. Qualcuno eroico tuttavia resiste!
A casa di Ninu per esempio puoi assistere alla vinificazione. Produce il vino nel garage in cui ricovera il trattore.
«Una volta lo facevo in cantina ma è scomoda. Adesso lo faccio qui che è piú caldo».
La tina ha le croste delle muffe e dei batteri dei secoli. Pigia e aspetta che inizi a bollire ma il mosto non ne vuole sapere. Allora scalda una casseruola di vino, aggiunge zucchero in abbondanza e lo mescola. Piano piano il mosto riparte… per non fermarsi più. Bolle due, tre, cinque, dieci giorni. Quando pare stia perdendo le forze, forse un po’ stanco di lottare, lo mette nelle botti a cui non toglie il tartaro da almeno vent’anni.
«Lo faceva sempre papà ma è morto: io non sono mai riuscito a smontarle».
E tu involontariamente pensi che sia mancato per colpa del suo vino. Nelle botti la fermentazione non è quella che i tecnici chiamano malo-lattica. È una paurosa reazione batterica che mette a dura prova le doghe della carèra che, se non fossero incrostate dal tartaro, verrebbero digerite anch’esse.
Infine, dopo mesi, prestando attenzione rigorosa alla luna che potrebbe rovinare la preziosa bevanda, Ninu imbottiglia; tappando rigorosamente con le nate riciclate dagli anni prima.
Beh… non manca sicuramente l’occasione di assaggiarlo.
Sapendo che lo andrai a trovare, mangi qualche cosa di saporito, pensando che nella settimana successiva non proverai più nulla di fronte a qualsiasi cibo.
T’incammini, lo saluti, discorri del tempo passato, e puntuale arriva l’offerta. Così ti siedi al tavolo, sorridi, prendi in mano il bicchiere della Preal che negli anni, nonostante i lavaggi, si è tinto di viola. Infine chiudi gli occhi, porgi le labbra che cercano di tornare indietro e tiri una grossa gulá, nella speranza che il supplizio finisca al più presto.
Poi t’incammini per tornare a casa e, lungo la strada, fai anche due parole con quel vino, che ormai è in te, vive di vita propria, e ti seguirà per qualche giorno in ogni tuo affare e spostamento.
E alla fine, ti ci affezioni persino un po’, perché pensi con dolcezza che un giorno il tuo anziano amico non ci sarà più e bere vino buono non ti darà lo stesso piacere che ti regalano le sue chiacchierate sotto la pergola.