“SU OGNI TRIBUNALE, IN CIMA O IN FONDO, UN CROCIFISSO E’ SEMPRE COLLOCATO, PER FAR CAPIR CHE SPESSO, IN QUESTO MONDO, CHI CERCA UN SALOMON TROVA UN PILATO”
La vera cronaca giudiziaria, in Italia, nasce a Torino, alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia. Sulle colonne del quotidiano torinese “La Gazzetta di Torino”, apparso per la prima volta il primo gennaio 1860. La Gazzetta di Torino conquistò forte popolarità per il vasto spazio dedicato alla cronaca cittadina. Ma cosa era avvenuto prima di questa data? nell’ancient règime non vi era cronaca giudiziaria per la particolare impostazione della dell’amministrazione della giustizia. L’esecuzione capitale è un ritruale pubblico dove la giustizia è impersonata dal sovrano e il corpo del suppliziato diventa un teatro dove si rappresenta la forza e il potere della giustizia-sovrano. L’istruttoria è segreta, il processo è spesso celebrato in assenza dell’imputato. La sentenza, priva di motivazioni, è stampata e affissa in pubblico. Tra il 1814 al 1839 in Canavese viene condannato Giovanni Battista Mejnardi, detto “Battistino”, residente a San Giorgio Canavese, viene accusato di due aggressioni a scopo di rapina, il 26 giugno 1819 è condannato a morte, con il supplizio della ruota, dopo l’applicazione delle tenaglie infuocate. il suo cadavere doveva essere ridotto “in quarti da affigersi ai luoghi e nei modi soliti”. E’ giustiziato a Torino il primo luglio 1819, all’età di 28 anni. Lucia Cordero invece, residente a Crotte di Strambino è accusata di infanticidio per aver avvelenato il figlio Domenico di 14 mesi, il 4 aprile 1819 a Candia Canavese, e di essere persona di disonesti costumi. La sentenza del 29 aprile del 20 febbraio 1820, la condanna ad essere “pubblicamente appiccata per la gola sinchè l’anima sia separata dal corpo”. Il re condona la pena delle tenaglie infuocate. La sentenza viene eseguita l’8 marzo 1820.
Il notaio Giuseppe Massa, di 48 anni, e Teresa Rostagno Pastore, di 60 anni, entrambi di Levone hanno ucciso in complicità il genero di Teresa Rostagno. Il notaio era l’amante della figlia di Teresa Rostagno Pastore. Secondo la sentenza dell’8 luglio 1823, eseguita il 17 luglio a Torino: “Saranno pubblicamente appiccati per la gola, previa l’applicazione delle tenaglie infuocate e fatto il loro corpo cadavere manda recidersi la testa dal busto ed affiggersi al patibolo”. Con Carlo Alberto nel 1831 vi è l’abolizione del supplizio della ruota, la pena di morte per i ladri, le tenaglie infuocate, l’accanimento sul cadavere, ma il banditismo non si ferma. Pietro Mottino nasce il 9 maggio 1827. Bersagliere dell’esercito partecipa alla conclusione della I Guerra D’Indipenza in due brutti momenti: il saccheggio di Novara e la reperessione dei genovesi insorti. Nel giugno del 1849 Mottino diserta e diventa capo indiscusso di una masnada di malandrini che opera nel basso canavese. Dopo alcuni furti di scarsa importanza, Mottino assalta la Cascina Gandina di Bianzè. Il colpo riesce con il suo lauto bottino, ma nel parapiglia, resta ucciso un contadino e prendono fuoco i fienili. Il luogotenente Arnulfi dei carabinieri di Chivasso scatena un’intensa caccia che verso la fine dell’anno, consente la cattura di buona parte dei malfattori che hanno nascosto od ospitato i banditi. Si tratta di Giovanni Pondrano e la figlia Teresa, amante del Mottino. Ma Mottino sfugge alle ricerche e resta padrone della zona a cavallo tra il Po, Canavese, Vercellese e Monferrato, continuando a farsi beffe dei carabinieri. Si nasconde a Lauriano, alla Quartera, alla Cerrina, ma soprattutto a Calciavacca, oggi Borgo Revel. Ci vorrà una brutta caduta da cavallo che gli procura una frattura ad una gamba, e così lo arrestano a Calliano. Confessa una serie di reati: assalti alle vetture postali, soprattutto a Verolengo, rapine a viaggiatori e furti in cascine e case.Ma il bandito è un cavaliere, dando addirittura del “lei” alle vittime e non ha mai ucciso nessuno. Finisce comunque in carcere a Vercelli, ma riesce ad evadere, corrompendo un carceriere. Assalta ancora due vetture postali, poi dopo alcuni mesi, poi dopo alcuni mesi viene nuovamente arrestato presso Crevacuore. Nel 1854 viene tradotto nelle carceri Senatorie di Torino, venendo condannato a morte. . Vittorio Emanuele II respinge la domanda di gruppo e il 12 dicembre del 1854 avviene l’esecuzione: Mottino ha 27 anni.
Con quest’ultimo caso possiamo dedurre che i “Serial Killer”, resi tanto famosi dagli americani negli ultimi anni, si trovavano anche qui, ma nell’Ottocento piemontese-canavesano. Si chiamava Giorgio Orsolano e il teatro dei crimini si dislega a San Giorgio Canavese, tanto che in seguito, questo brutale omicida viene soprannominato “La Jena di San Giorgio”. E’ Il 3 marzo 1835 ed è martedì grasso,l’ultimo giorno di carnevale. Nel mercato sangoirgese c’è anche Francesca Tonso, una ragazzina di 14 anni che arriva da Motalenghe, con una cesta carica di uova. E’ accompagnata dalla zia, ma tra la gente si aggira Giorgio Orsolano,un ex galeotto, privo di un occhio che nasconde con un lungo ciuffo di capelli rossi. Sposato e padre di una figlia, gesrtisce un negozio di vino e commestibili. Da tempo si parlava nel Canavese di bestie feroci, in quanto erano sparite due bambine. si pensò ad un branco di lupi, ma le battute di caccia non diedero alcun risultato. Ad un tratto scorge Francesca con il suo cesto di uova. Orsolano si avvicina a Francesca e scambia qualche parola con lei. Gli dice che non ha tutti i soldi con sè e se avesse la bontà di seguirlo a casa sua gliele avrebbe comperate tutte. L’ingenua contadina, felice per l’affare concluso, decide di seguirlo. Orsolano chiude la porta e gli si avventa addosso, la scaraventa a terra afferrandola per la gola e la violenta ripetutamente.Francesca muore strangolata dalla”Jena di San Giorgio”. L’assassino stende il corpo dell’adolescente sopra un tavolo e con precisi colpi di mannaia la riduce in brandelli. Mette i resti in un sacco di iuta, ma lascia due indizi che lo inchioderano: gli zoccoletti della giovane e alcuni brandelli di vestito che lo inchioderanno. Nella notte l’uomo esce con il suo macabro involto e raggiunge il torrente Piatonia, dove scava una fossa. La sua abitazione viene accuratamente percuisita, ma in assesenza del cadavere l’uomo non può essere incriminato. Ma il comandante della brigata escogita un modo per far confessare l’assassino: una notte si presenta in cella con vino e grappa, tanto che alla fine l’assassino si ubriaca. Allora l’ufficiale prova ad incalzarlo: “Le prove contro di te sono schiaccianti, ti rimane una sola strada per non finire sulla forca. Devi dichiararti pazzo. Confessa il crimine con parole sconclusionate, mettiti a urlare e fa che i tuoi parenti chidano alle autorità di dichiarartiinsano di mente”. Allettato dalla proposta, l’omicida decide di confessare tutto. La gente è indignata e si prepara al lionciaggio. Diventa sempre più probabile l’ipotesi che anche altre due ragazzine: Caterina Gigovre, sparita tre anni prima e Caterina Scarda, scomparsa nel 1833, non siano state sbranate dai lupi, ma violentate e uccise da Giorgio Orsolano. L’omicidio finisce al carcere di Ivrea, mentre i carabinieri stentano a contenere la folla che vorrebbe linciarlo. Il 13 maggio 1835 arriva la sentenza: “Pena di morte da eseguirsi mediante impiccagione nel luogo ove sono stati commessi i crimini”.
Perquisito
Grazie per aver sottolineato un errore…bravo,,,comunque sarebbe perquisita