Guido Gozzano è il poeta di versi celebri, entrati nell’uso comune come ”Amo le rose che non colsi” o ”le buone cose di pessimo gusto”, spesso consumati prescindendo dalla loro origine e contesto. Poeta malinconico e ironico, innamorato delle donne e malato, di cui quest’anno si sono celebrati il 9 agosto i cento anni dalla morte, avvenuta a 33 anni nel 1916, è citato e speso celebrato ma poco studiato nei licei, con la sua vena tragica esistenziale mascherata da una certa mondanità e dal tono colloquiale della sua poesia.
Sulla copertina della riedizione Einaudi delle sue ”Poesie” a cura di Edoardo Sanguineti (2 vol, pp. 444 – 22,00 euro) uscito per questo centenario troviamo suoi versi rivelatori per contenuto e modernità espressiva: ”Oggi pur la tristezza si dilegua / per sempre da quest’anima corrosa/dove un riso amarissimo persiste / un riso che mi torce senza tregua / la bocca… Ah! veramente non so cosa / più triste che non più esser triste”.
Nato a Torino il 19 dicembre 1883, Gozzano è il poeta che ha dato un nuovo orizzonte alla poesia italiana, prigioniera della retorica dannunziana, destrutturata con un’ironia che ne cambia i toni e la corrode inevitabilmente, aprendo la strada alla modernità, a Montale e tutti i post montaliani, per arrivare sino a Pagliarani e Zeichen, che in lui, come anche Attilio Bertolucci o Emilio Sereni, vedevano un ”piccolo maestro” che sfugge alle classificazioni rigide, come rileva Luca Lenzini, curatore della edizione completa di ”Poesie e prose” per l’Universale Economica Feltrinelli, mentre troviamo una ricchissima antologia in ”Gozzano e i crepuscolari” a cura di Cecilia Ghelli per i Grandi Libri Garzanti. Ed è proprio da Sanguineti che inizia la rilettura e rivalutazione di questo poeta, di cui scrive nel 1955 e dedica una monografia nel 1966.
Se per Sanguineti è il poeta della caducità: ”Ciò che è di moda per lui è già démodé… Il segreto di una poetica degli oggetti, se vogliamo, è tutta qui: si tratta di intendere che tutto è datato, irrimediabilmente datato”. Per Pier Paolo Pasolini in un suo articolo del 1973, il suo ”essere” di poeta ”è un colloquio con se stesso, in cui dibattere il problema della propria impotenza”, in un gioco in bilico tra ”parodia volontaria e parodia involontaria”, la seconda maggiore della prima e di cui Gozzano sarebbe vittima, perché la cultura che parodiava restava in gran parte la sua cultura. Ma al suo piccolo, buon mondo borghese riesce a dare una risonanza cosmica, una dimensione di purgatorio esistenziale, non disperato proprio in quanto purgatorio e passaggio, ma nemmeno aperto alla felicita’ nel suo apparire espiazione e condanna.
Resta solo, leopardianamente, la terra felice dell’infanzia.
Per capirlo basta rileggere i suoi ”Colloqui”, per citare la raccolta più nota, usciti nel 1911 e scritti negli anni in cui Marinetti pubblica i manifesti del Futurismo, cosa che dovrebbe farci riflettere su quanto la sua scrittura, la sua libertà, abbiano aiutato il dischiudersi del moderno far versi e si ricolleghino, per esempio, alla vena irriverente e giocosa di Palazzeschi o a quella poesia narrativa di certo sperimentalismo del dopoguerra, sino appunto a Sanguineti e il Gruppo 63. Ma oltre a questo interesse critico e storico, la fortuna di Gozzano dovrebbe legarsi al ritorno d’una vena nostalgica e sensuale, ”esistenziale” di certo post ’68 e alla scoperta di una libertà diversa, magari trovata attraverso la fuga e il viaggio, nella lontana India, come dimostra il diario di ”Verso la cuna del mondo”, conquistato e disilluso dalla culla della civiltà, vissuta con nostalgia per il suo Piemonte.
Poco crepuscolare quindi, nonostante le scolastiche suddivisioni, aperto al mondo, ripiegato su se stesso, ma non chiuso in sé, con la dolorosa solarità del suo essere, osservare, narrare e racchiudere in versi sintetici uno ”sgomento” modernissimo, come ha scritto Giorgio Di Rienzo, ”un’esigenza di rifugio dall’inquietante incombere di due parole”, lo ”spazio” e il ”tempo”, con nostalgia per lo spazio raccolto e ordinato della casa borghese, cui però si oppone, o da cui nasce assieme un desiderio di evasione e fuga, creando una situazione di inquietudine, di sofferta instabilità, di oscillazione tra poli opposti, come quella sua ansia per l’invecchiamento d’ogni cosa e un’adesione alla floridezza della natura, un bisogno di vita reale.
Per questo centenario, le cui celebrazioni avranno il culmine a ottobre con un convegno internazionale a Torino organizzato dal Centro Studi Gozzano-Pavese, sino al 2 ottobre ad Agliè nel Canavese, dove il poeta trascorreva le proprie vacanze nella villa di famiglia il ”Meleto”, oggi museo ricco di tutti i suoi oggetti, libri e quadri, oltre alla sua collezione di farfalle, è aperta una mostra ”Xilografie: omaggio a Gozzano” con opere di Gianfranco Schiavino e Gianni Verna che si sono ispirati alla sua opera.